Progetto di ricerca: Calamità naturali e cooperazione internazionale: Rinnovare la società ricostruendo il territorio

Prof. Luigi Gaffuri

Catastrofi, soggetto e luoghi: una questione identitaria


L’anno 2009 all’Aquila è oggi considerato un crinale, uno spartiacque. Da allora sono mutate la storia e la geografia della città. Si è cominciato a ragionare e a raccontare in termini di “prima del terremoto” e di “dopo il terremoto”. Paradossalmente, pur essendo una tragedia, quell’evento catastrofico può essere considerato un’opportunità, un’occasione per cambiare, pur mantenendo un fondo identitario che viene da lontano. È inutile qui fare l’elenco dei terremoti che hanno colpito la città e parlare delle loro conseguenze sociali e territoriali; conviene piuttosto esplorare la scatola nera della città, indagando sugli immaginari di una popolazione urbana e non solo urbana – che in fondo sono gli immaginari della vita di ciascuno. E non si tratta solo dell’esistenza individuale, ma anche della vita collettiva di un aggregato sociale che è stato disgregato, secondo traiettorie che vanno dall’espulsione urbana alla periferizzazione spaziale, dalla polverizzazione sociale alla riconcentrazione in luoghi, che qualcuno ha chiamato non luoghi, come i centri commerciali, percepiti anzitutto dai giovani come spazi d’incontro, di nuova aggregazione di una comunità comunque dispersa sul territorio. E a parcellizzarsi in questo paesaggio colpito e ferito da una catastrofe naturale è non solo la dimensione degli affetti e della solidarietà sociale, ma anche il patrimonio culturale che condensava un vissuto collettivo e una riconoscibilità identitaria, facendo della città dell’Aquila un centro urbano che ospitava, certo, la popolazione residente ma anche coloro che, provenendo dall’esterno, hanno beneficiato della sua generosità, della sua apertura e talora della sua chiusura, avvalendosi della sua simpatia composta, non espansiva, discreta e concretamente operante. Una città con un clima particolare, ben conosciuto dagli aquilani e che resta anche nella memoria degli outsider adottati nel corso del tempo dall’ambiente aquilano; una città fatta di luoghi e di persone, con un centro storico di grande fascino urbanistico e architettonico. Per poter parlare oggi di ricostruzione dell’Aquila, secondo un punto di vista geografico, bisognerebbe tenere conto di almeno tre fattori, di tre componenti: il soggetto (connesso al tema dell’identità), il luogo (la città) e il racconto (le narrazioni del processo di ricostruzione). A tale proposito è importante sottolineare, per prima cosa, l’introduzione del soggetto nell’analisi scientifica. In questa prospettiva, diventa cruciale cercare di capire come giochi il soggetto nell’evoluzione sociale e culturale della realtà contemporanea in generale e nella realtà aquilana in particolare. Ciò coinvolge la visione che ciascuno ha della società, dell’individuo, e mostra come sia l’una che l’altro abbiano una loro traduzione spaziale. Questa traduzione ha a che fare con il territorio, riguarda le trasformazioni collettive e soggettive che avvengono mediante le nostre esperienze, le quali, immancabilmente, si inscrivono nello spazio. Il luogo – nel nostro caso la città dell’Aquila ma anche ogni altro centro nazionale o internazionale colpito da (o esposto al rischio di) calamità naturali – è dunque consustanziale al soggetto e contribuisce a plasmare e a trasformare il soggetto. In altre parole, attraverso il luogo e la sua ridefinizione, il soggetto lavora alla propria costruzione e all’impegno nel mondo che lo circonda. Il problema è che, quando il mondo intorno agli uomini crolla, la prima cosa da ricostruire è il soggetto, che è sia individuale sia collettivo – e questa ricostruzione non può avvenire senza la ricostruzione contestuale e parallela del luogo di vita, cioè la città, l’ambiente urbano nel quale le persone “campano” la loro esistenza. Ciò che è in gioco, infatti, quando si parla di ricostruzione, sono i processi attraverso i quali la mediazione territoriale, la traduzione spaziale si intrecciano con i profili di vita e i percorsi individuali, ma anche con l’identità in movimento di una comunità che si è smarrita e cerca di ricostruire i suoi punti di riferimento culturali e sociali. Il fatto è che questi riferimenti culturali e sociali sono inestricabilmente legati ai luoghi e alle relazioni che ciascuno intrattiene con essi. E ci si rende conto di quanto queste relazioni siano vitali solo quando i luoghi vengono a mancare, sono sottratti agli uomini per qualche motivo. Questo accade perché il senso del luogo risiede certo nella sua materialità, nella sua fisicità, che una lunga storia ha costruito, ma riguarda anche il modo con cui ognuno conferisce significato all’ambiente nel quale vive – territorio utilizzato e costruito da soggetti individuali che fanno parte di un consorzio sociale. La questione è che, in ogni disastro, ci si trova di fronte a una collettività ferita nel suo corpo territoriale e nella sua identità simbolica, basata su caratteristiche naturali e umane dell’ambiente di vita, fondata dunque sulle componenti del luogo che sono sia estetiche che concretamente funzionali. E quando tutto questo viene a mancare, si incrina il rapporto biunivoco, la relazione ecologica fra società e territorio, nel senso specifico di un’ecologia della mente che mette in stretto rapporto la collettività con il suo luogo di vita.

Ricostruzione, immigrazione, partecipazione


Il luogo, come qui lo intendiamo, si basa sull’idea di un soggetto attivo che, mentre intreccia costantemente legami complessi che alimentano la sua identità, nel medesimo tempo definisce la propria relazione con il suo ambiente. E oggi, all’Aquila, siamo di fronte a un ambiente urbano che si sta ricostruendo, un luogo che andrebbe ricostruito insieme ai soggetti – che sono poi i suoi cittadini. Il concetto di luogo, infatti, invita a gettare un nuovo sguardo sulla questione etica, vale a dire sulla portata delle nostre pratiche quotidiane, dei nostri comportamenti e sulla rilevanza della responsabilità di ciascuno. La geografia morale di una città emerge quando si progetta la ricostruzione di un luogo pubblico, di un luogo sociale com’è l’ambiente urbano: in questi casi è necessario tenere conto dei bisogni e del parere delle popolazioni interessate – dunque della loro partecipazione. Ogni ricostruzione, dunque, dovrebbe esplorare la necessità di mantenere o innovare una cultura attraverso la sua traduzione territoriale, cioè tramite una mediazione che sia coerente e riesca a favorire consenso e legittimità alla nuova geografia del post disastro. Tanto più che il potere creativo è costitutivo del concetto di luogo, inteso come uno spazio di dispiegamento dell’intersoggettività che possiede dimensioni concrete, da quelle ambientali a quelle economiche, da quelle sociali a quelle territoriali, da quelle simboliche a quelle più ampiamente culturali. Queste possono favorire la vita democratica e l’esercizio della responsabilità da parte del soggetto solo se riescono a coniugare i principi di universalità dello spazio pubblico con le molteplici sfaccettature della cultura di appartenenza legate alle particolarità del luogo, dunque connesse al discorso identitario e alla sua narrazione. Così, la ricostruzione andrà a buon fine soltanto se la relazione inestricabile tra società e territorio sarà armonica, vale a dire se i soggetti individuali e sociali nella loro vita concreta e con il loro immaginario riusciranno ancora a riconoscersi nel proprio ambiente, nel luogo, nella città come fonte d’identità e come occasione di progettualità per il domani. Benché sia auspicabile guardare al futuro per cercare di contribuire alla trasformazione di una città ferita, ma in piena ricostruzione, a dieci anni dal terribile evento l’enigma del passato ritorna e, quando si è subito un trauma, ritorna soprattutto l’enigma del «passato che non passa». Ogni storia della sofferenza grida giustizia e domanda di essere raccontata. E se la nemesi non può che passare attraverso l’impegno e può avvenire solo mediante la riappropriazione dei luoghi che hanno fatto dell’Aquila la città che è stata e la città cerca di ridiventare, allora il contributo del progetto Territori Aperti nell’ambito della ricostruzione non può che essere un contributo di conoscenza. Ecco, direi che se oggi la ricerca vuole mettere a punto una narrazione nel campo delle catastrofi, questa narrazione può essere solo un tentativo di verità, può avere soltanto un interesse per la verità. E ciò è tanto più necessario quando si parla di immigrazione. Al riguardo, conviene ribadire che non si dà vera ricostruzione senza inclusione. E non si dà vera inclusione senza partecipazione. Perché è il ruolo attivo dei cittadini, di tutti i cittadini compresi quelli che per convenzione chiamiamo immigrati, che può spingere a spronare le istituzioni, può spingere a riprendersi gli spazi che erano stati loro e ai quali i cittadini si erano e sono tuttora affezionati. E anche il mondo della ricerca è fatto di cittadini, ai quali spetta una responsabilità forse ancora più alta, perché si tratta di cittadini che hanno il privilegio di poter comprendere meglio le dinamiche sociali, ma hanno anche il dovere e la fortuna di poter creare consapevolezza su queste dinamiche, attraverso gli strumenti e le analisi scientifiche che costituiscono la parte centrale del loro lavoro. A questo proposito, bisogna forse ricordare che l’immigrato, per la società che così lo definisce, esiste soltanto nel momento in cui varca un confine e calpesta il suolo di una società di approdo: è in quel momento che “nasce” l’immigrato, per la società che così lo indica e così lo chiama. Per chi ha una pretesa di verità, parlare di migranti significa allora tenere conto dei processi soggettivi che li riguardano, significa collocarsi nella frontiera che li abita e li attraversa da parte a parte, situandosi cioè nel luogo stesso del conflitto, la cui posta in gioco è la definizione dell’identico e dell’altro, cioè del “noi” e del “loro”, del simile e del dissimile, del riconosciuto e dell’estraneo, del nativo e dello straniero. Tutto questo a che vedere con i luoghi, con il territorio, sia quello di origine dei migranti sia quello di approdo, quindi con il loro ambiente di provenienza e di arrivo. E quando si parla di luoghi, di territorio, di ambiente, è invitabile ritornare sulla questione etica, perché essi sono beni pubblici, di tutti e non solo di qualcuno: in realtà non appartengono a noi, siamo noi che apparteniamo a loro e, più ci si convincerà che le cose stanno in questo modo, più ampia sarà la partecipazione di ognuno ad averne cura. Bisogna imparare a “riguardare” i luoghi, sia nel senso di aver riguardo per loro sia nel senso di tornare a guardarli con occhi nuovi. Riguardare i luoghi significa valorizzare le relazioni simboliche e materiali, affettive e concrete che ciascuno può stabilire con essi; vuol dire gettare uno sguardo diverso sulla carta geografica, seguendo percorsi che vanno oltre i confini nazionali per scorgere nuove connessioni, nuovi mondi vicini e nuovi universi lontani. Solo così L’Aquila potrà diventare una città di tutti, dei residenti e di chi viene da fuori, compresi i migranti stranieri e non solo i migranti interni, mediante la tutela dei diritti di ciascuno.

La centralità del territorio nei processi sociali


Il territorio aquilano, oggi, costituisce un campo di studio e di prassi particolarmente interessante dal punto di vista della geografia sociale. Il terremoto del 6 aprile 2009 ha comportato una repentina trasformazione degli assetti insediativi e una riconfigurazione socio-territoriale che hanno attivato, e in certi casi accentuato, quelle dinamiche da tempo note, soprattutto in riferimento ai grandi agglomerati urbani, di frammentazione e dispersione dell’abitato che a livello individuale producono disorientamento e chiusura, solitudine e malessere e che enfatizzano la dimensione temporanea, provvisoria, “nomadica” dell’abitare. Ciò ha generato una nuova geografia sociale post sisma nel territorio comunale aquilano. Nell’ultimo decennio si è andata definendo all’Aquila, per una buona parte della popolazione, una modalità dell’abitare che nella quotidianità orienta i comportamenti verso la de- responsabilizzazione nei confronti dei propri contesti di vita e verso un impoverimento della densità culturale dei luoghi. La scarsa qualità dei luoghi della quotidianità si è manifestata nel tempo in quanto essi non sono più stati capaci di far «sentire bene» le persone lì dove abitano, di orientare i loro comportamenti – dei singoli e delle comunità – verso la socialità, la solidarietà, il senso di appartenenza, l’attenzione per gli spazi pubblici. La carente qualità dei luoghi si è tradotta, sul piano delle attitudini, nel disinteresse, nella disaffezione, talora nell’indifferenza; e si è tradotta, sotto il profilo territoriale, nel “paesaggio quotidiano” con aspetti di bruttezza, incuria, abbandono che solo l’avvio della ricostruzione ha temperato, riaccendendo la speranza e limitando le manifestazioni di rifiuto. In tale quadro e in considerazione del fatto che oggi, con la ricostruzione, si stanno gettano le basi per garantire le condizioni di sicurezza e di benessere della popolazione nel futuro, è importante riconoscere l’esigenza di incrementare e approfondire certe consapevolezze. Diventa strategico, per esempio, saper identificare i comportamenti istituzionali, collettivi e individuali, che stanno all’origine dei processi di vulnerabilizzazione socio-territoriale di una comunità, perché sono essi a generare una ridotta capacità di resistere a eventi calamitosi straordinari. Prendere esplicitamente in carico tale esigenza vuol dire, da un lato, lavorare per lo sviluppo di un’inadeguata resilienza e, dall’altro, contribuire a superare l’idea di prevenzione come mera questione di “messa in sicurezza” dell’ambiente costruito. Infatti, quando si tratta di prevenzione il problema che si pone è anzitutto culturale, nel senso che la prevenzione ha sì a che fare con la politica e la tecnica – in particolare con le politiche di governo del territorio, con le tecniche per la ricostruzione e con le tecnologie per il suo monitoraggio – ma prima di tutto essa ha a che fare con i meccanismi sociali di produzione dei valori, delle norme, delle prassi. Le dinamiche socio-territoriali attualmente in atto nel contesto aquilano post sisma, insieme alla graduale trasformazione “geografica” della città e dei suoi dintorni, forniscono così l’opportunità per riflettere, sul piano della ricerca, su cosa accade quando i luoghi della quotidianità limitano le possibilità di espressione delle soggettività individuali, cioè quando il territorio non risponde più in modo adeguato ai bisogni della società. In queste condizioni, le persone che vivono e praticano i luoghi sperimentano una restrizione delle occasioni di partecipazione alla vita economica, sociale, culturale, politica, ma anche in termini di scelte comportamentali quotidiane; ciò significa, in estrema sintesi, che non riesce a prendere forma la cultura di una comunità insediata, finendo per assumere contorni identitari sempre più indefiniti. Si pone allora una questione di ordine generale che, da ultimo, implica la dimensione politica dell’abitare: quando la perdita di controllo sulla propria situazione spaziale arriva a configurarsi in forma diffusa anche come difficoltà a governare i processi di produzione e uso del territorio, il problema non si pone più solo in termini individuali, ma sociali e di funzionamento democratico. Del resto, è noto che le grandi catastrofi non sgretolano solo le case, ma anche il tessuto sociale delle comunità investite dai disastri e il terremoto subìto dalla città dell’Aquila, insieme a diversi comuni della provincia più interna d’Abruzzo, rende concreto il principio di verità contenuto in questa affermazione. Quando si verificano calamità naturali, poi, le fasi emergenziali rischiano di trasformarsi in occasioni nelle quali si indeboliscono la democrazia da un lato e la società dall’altro. Nello stadio iniziale dell’emergenza post terremoto, con l’accentramento decisionale in un unico attore responsabile della ricostruzione, la Protezione civile, sono state mortificate sia la partecipazione popolare sia le istituzioni locali che la incarnano, esautorandole delle loro funzioni statutarie. In quei momenti di confusione e dolore una fetta importante di umanità che viveva nell’Aquilano, quella dei migranti, è stata trascurata. Immigrati presenti da decenni sul territorio, cui avevano fornito il proprio contributo economico e culturale, hanno visto aggravarsi le loro difficoltà a causa di un evento inatteso e distruttivo che ha accentuato il già significativo senso di precarietà dal quale erano afflitti. Ora che molto tempo è passato, quale apporto possono offrire i migranti alla ricostruzione? Che ruolo potrebbero svolgere, oggi, nelle dinamiche partecipative?

Cooperare altrimenti per un co-sviluppo sostenibile


La partecipazione come metodologia d’indagine prevede, a monte del percorso di comprensione, il coinvolgimento di coloro che vivono il territorio quotidianamente, non come “oggetti” di studio quanto piuttosto come “soggetti” di conoscenza. Si tratta di una funzione conoscitiva orientata ad assicurare, nelle decisioni, parametri di giustizia sociale e di inclusione. Una siffatta partecipazione, intesa come dispositivo prasseologico capace di favorire l’avvio di dinamiche culturali, economiche e politiche, può essere articolata in spazi di riflessione etica e piattaforme di comunicazione in grado di catalizzare interessi miranti a restituire protagonismo agli attori che vivono nel e del territorio. Essa mira a creare occasioni di dialogo, aprire canali di negoziazione per definire i problemi, farsi carico dei conflitti e delle contraddizioni, a partire dall’assunto che è impensabile poterli gestire senza interpellare e coinvolgere coloro che li vivono in prima persona. E ciò vale a maggior ragione quando si prendono in considerazione i migranti che, nella loro condizione di cittadini non ancora italiani, non hanno accesso per statuto ai processi negoziali e, peraltro, sono ritenuti “naturalmente” esclusi da una parte importante della società civile. Nell’ambito del progetto Cooperazione internazionale, migrazioni, sviluppo (CMS), promosso dall’Università dell’Aquila e articolato su un duplice asse di ricerca e azione, focalizzando l’attenzione sul territorio d’approdo dei migranti e sui paesi di provenienza, vengono analizzati problemi e si individuano percorsi operativi di cooperazione internazionale allo sviluppo. Essi mirano, da un lato, a valorizzare la presenza migrante in regione, con riconoscimento del ruolo dei lavoratori dipendenti, delle imprese straniere, dell’associazionismo, della formazione e degli scambi interculturali nei processi d’integrazione; dall’altro lato, tali percorsi cercano di valorizzare i migranti come protagonisti dello sviluppo nei paesi d’origine, attraverso il loro apporto in termini di capitale umano, sociale e finanziario, con ricadute che rafforzano anche l’integrazione nel paese di destinazione. In questo contesto, la programmazione dell’Ateneo aquilano cerca di raggiungere una molteplicità di obiettivi: i) attuare una cooperazione in termini di co-sviluppo, rivalutando l’insieme di prassi mediante cui i migranti partecipano alla vita sociale nei territori di provenienza e in quello d’approdo, divenendo artefici di un processo d’integrazione economica, sociale, territoriale e culturale; ii) approntare “programmi-Paese”, calibrando l’azione su interlocutori privilegiati, facilitando la partecipazione nel contesto prescelto, offrendo spazio multidisciplinare alla progettualità della cooperazione sulle migrazioni; iii) avviare relazioni con Paesi terzi mediante convenzioni bilaterali, formulate come primo approccio aperto a possibili approfondimenti progettuali; iv) stimolare le istituzioni, le organizzazioni sociali e l’associazionismo locale, in Abruzzo e nei Paesi partner, a collaborare per affinare gli obiettivi della cooperazione sui temi delle migrazioni; v) individuare percorsi di ricerca e azione che inseriscano i fenomeni migratori all’interno di settori d’intervento prioritari del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, come la riduzione della povertà (orientando i paesi partner a essere responsabili del proprio sviluppo), l’educazione per tutti (rafforzando le strategie educative con attività di formazione degli insegnanti e impiego delle tecnologie informatiche), il patrimonio culturale e ambientale (collaborando con istituti specializzati, centri culturali, università, attori locali per promuovere la tutela del patrimonio materiale e immateriale); vi) instaurare forme di cooperazione nelle aree in cui la sicurezza alimentare è messa in crisi da catastrofi che, creando situazioni di emergenza, generano migrazioni forzate. Tenendo conto degli obiettivi dell’Agenda 2030 sullo sviluppo sostenibile adottati dai paesi membri delle Nazioni Unite, il progetto CMS può essere coniugato con il progetto Territori Aperti – ruotante attorno alle calamità naturali, alla loro prevenzione e alle loro conseguenze – internazionalizzando una serie di competenze maturate nel campo della gestione dei disastri, nello studio delle migrazioni e nel quadro della ricerca africanistica. Il comune denominatore delle catastrofi che avvengono in ogni parte del mondo, secondo la prospettiva qui immaginata e perseguita, è la relazione uomo- ambiente, una questione complessa che coinvolge differenti livelli della vita delle persone e delle comunità, integrando al suo interno aspetti economici, sociali, territoriali, politici, antropologici, psicologici, identitari. Mirando alla redazione di un Atlante del rischio e delle calamità in Africa, affiancato dall’approfondimento di selezionati case study, l’impegno di ricerca per la linea di attività “Cooperazione internazionale”, nel quadro del progetto Territori Aperti, intende mostrare, tra le altre cose, che le calamità naturali sono a loro volta migrazioni simboliche in loco e funzionano come tali. Vale a dire che non si muovono solo gli individui e le collettività, come conseguenza dei disastri generatori di flussi migratori interni e internazionali, ma è piuttosto il territorio a subire una dislocazione. Mentre i migranti nel loro percorso riescono in genere a trovare qualche rifugio o qualche lavoro, quando si verifica la distruzione di un territorio, c’è un’immediata crisi del rapporto con i luoghi, si smantella la relazione identitaria con essi e, la successiva ricostruzione, avvia un cambiamento che non sempre è portatore di benefici.

Dai case study all’Atlante del rischio e delle calamità in Africa


Il quadro appena tracciato serve a inquadrare i casi di studio che la linea di attività riservata alla “Cooperazione internazionale” intende affrontare sotto il profilo della ricerca, facendo riferimento alla loro importanza per la ricostruzione e lo sviluppo delle aree colpite da calamità naturali o esposte a rischio di disastro. Qui, in prospettiva, possiamo solo enucleare possibili percorsi che potranno essere messi a punto in modo più definito nel corso dei lavori. Nell’individuazione capillare dei luoghi e delle tipologie di catastrofi, in funzione della localizzazione e di una mappatura dei dati che punti a realizzare ciò che potrebbe configurarsi come Atlante del rischio e delle calamità in Africa, le scelte metodologiche e tematiche pongono alternative diverse tra loro, benché tutte legittime. Proviamo a distinguerne alcune. La prima decisione riguarderà senza dubbio l’identificazione di areali significativi per i temi di ricerca e questa andrà coniugata con una scelta che interseca le possibili suddivisioni geografiche, da adottare in un continente di oltre trenta milioni di chilometri quadrati, estremamente variegato nelle sue componenti naturali, economiche, sociali e culturali. Una ripartizione potrebbe essere quella tra Africa umida (a clima equatoriale o tropicale con regime intenso delle piogge) e Africa asciutta (a clima tropicale secco o saheliano); oppure sarebbe plausibile differenziare l’Africa urbana dall’Africa rurale, contesti sociali e territoriali che mostrano situazioni e sperimentano condizioni molto diverse tra loro; o ancora, procedere mediante una demarcazione più tradizionale, rubricando casi riscontrati in Africa settentrionale, Africa occidentale, Africa orientale, Africa centrale e Africa meridionale. Su queste delimitazioni geografiche, utilizzabili anche in modo incrociato, si dovranno poi innestare le fattispecie tematiche. Sotto quest’ultimo profilo si potrebbero distinguere le calamità naturali (alluvioni, terremoti, eruzioni vulcaniche, desertificazione, erosioni geologiche, frane e crolli) dai disastri ambientali generati dall’uomo (guerre, inquinamento, incendi, dissesto idrogeologico, consumo di suolo, deforestazione, crisi economiche, epidemie, land grabbing e water grabbing). Nel loro insieme, tali eventi e processi dovuti all’azione umana o agli effetti devastanti della natura, creano migrazioni forzate (nazionali e internazionali), alimentando il numero sempre più ampio degli sfollati e dei rifugiati ambientali. E tutto ciò senza contare i problemi delle carestie e della fame che generano tragedie pluriennali e talora decennali. Gli eventi catastrofici, dunque, al di là della loro causa naturale o antropica, producono effetti negativi e laceranti sulle popolazioni, dando vita a flussi migratori di ogni genere. Un breve elenco di esempi può essere qui indicato, pur trattandosi di una minima parte dei disastri che colpiscono il continente. L’Africa è una delle terre più colpite dagli effetti dei cambiamenti climatici, con oltre cinquanta milioni di individui che rischiano la morte per fame, a causa dei danni provocati dal climate change in una ventina di Paesi distribuiti fra Africa centrale, orientale e australe. Segnatamente, ben oltre trenta milioni di persone in Africa orientale e meridionale sarebbero vittime dell’insicurezza alimentare causata dalle crisi climatiche. In particolare, le agenzie delle Nazioni Unite (FAO, WFP e IFAD) sostengono che più 11 milioni di esseri umani hanno una disponibilità di cibo talmente scarsa da essere definita a livelli di “emergenza” in nove Paesi del continente: Angola, eSwatini (Swaziland), Lesotho, Madagascar, Malawi, Mozambico, Namibia, Zambia e Zimbabwe. L’aumento delle temperature globali produce da un lato siccità e dall’altro alluvioni, due facce di una medesima medaglia. La siccità determina un calo dei raccolti e rischi di diffusione della fame, ma le conseguenze degli shock climatici non si limitano a questo. In Ciad, per esempio, l’omonimo lago ha subito un prosciugamento e restringimento della superficie lacustre, con fortissima diminuzione del pescato e negative conseguenze sull’allevamento transumante. In cinquant’anni il lago Ciad ha perso il 90% delle sue acque. Metà dei circa trenta milioni di abitanti dell’area, si sono trasformati in profughi ambientali. Pescatori e contadini sono scomparsi, mentre i dintorni di quello che era uno spazio lacustre tra i più importanti dell’Africa boreale (ampio ma poco profondo) sono ora prevalentemente caratterizzati dalla presenza di commercianti e artigiani, ma anche da una consistente concentrazione di persone senza mezzi di sostentamento, la cui alimentazione è insufficiente, e con lo spettro della carestia sempre alle porte. In Nigeria, la desertificazione ha colpito zone di pastorizia e agricoltura nel Nord, comportando la nascita di migrazioni interne verso il Sud un po’ più umido che hanno suscitato conseguenti conflitti con i pastori già installati in quelle aree (a causa di pascoli troppo esigui rispetto a un bestiame numeroso, in territori comunque caratterizzati da ambienti seccagni). Nello Zimbabwe, si è recentemente registrato il più basso livello di piogge dal 1981, con un conseguente inaridimento dei suoli e oltre cinque milioni di persone colpite da grave insicurezza alimentare. Nel vicino Zambia, un tempo ricco di mais, le esportazioni si sono ridotte al lumicino, con la conseguenza che nel Paese due milioni e mezzo di persone soffrono la fame. Nel Malawi, nonostante il bacino imbrifero dell’omonimo lago (il nono più grande del mondo), la temperatura ha superato i 46 gradi portando milioni di individui a sopravvivere solo grazie agli aiuti alimentari internazionali. In Africa orientale e nel Corno d’Africa, la siccità sta colpendo duramente Etiopia, Kenya e Somalia. Anche in considerazione di questi drammi, l’Unione Africana ha promosso il progetto della Grande muraglia verde, un mosaico biogeografico di zone tampone da realizzare tra Sahel, Nord Africa e Africa Orientale, che testimonia non solo l’esistenza di una crisi ambientale, ma anche la maturazione di una consapevolezza indirizzata a migliorare la vita degli abitanti insediati in quei luoghi. Il riscaldamento globale, però, produce anche fenomeni opposti, come l’innalzamento dei livelli delle acque che genera alluvioni e inondazioni. In Kenya e in Sud Sudan, le elevatissime temperature registrate nell’Oceano Indiano hanno provocato violente inondazioni soprattutto lungo il corso dei principali fiumi. In Kenya le intense precipitazioni hanno scatenato frane e causato molte vittime; nella Contea di West Pokot, al confine con l’Uganda, alluvioni e smottamenti hanno colpito circa 120.000 abitanti, mentre nella Rift Valley si è constatata la scomparsa di una settantina di persone. Il Sud Sudan, a sua volta, ha dichiarato lo stato di emergenza, con oltre 900.000 persone coinvolte nelle inondazioni. A sua volta il Mozambico, nella primavera scorsa, ha subito le distruzioni ingenerate dai cicloni Idai e Kenneth, con terribili alluvioni dei fiumi Buzi e Pongue che hanno creato una crisi umanitaria e determinato centinaia di vittime. Inoltre, si stima che oggi siano circa 500.000 le persone a rischio inondazione nel Paese. Crisi idrogeologiche si sono recentemente registrate anche in Angola, Madagascar, Namibia e nel Corno d’Africa (Etiopia e Somalia). Inutile sottolineare che questi eventi climatici, colpiscono paesi già di per sé provati dai conflitti, dalla fame, dalle disuguaglianze e dalla povertà strutturale. L’Africa è afflitta anche dai fenomeni sismici e dal vulcanismo. Le attività vulcaniche e i terremoti, con magnitudo in genere uguale o inferiore a 5,5 gradi, rappresentano i principali rischi geologici nella Rift Valley. In questa vasta fenditura tettonica che divide la placca africana in due sottoplacche (quella nubiana e quella somala), ma anche nelle zone circostanti dove sono presenti numerosi edifici vulcanici ancora attivi, gli sciami sismici sono diffusi e i disastri appaiono come una minaccia costante, incombente. Si pensi solo al vulcano Erta Ale in Etiopia, sempre attivo e tenuto sotto stretto controllo da numerosi satelliti della NASA, che nel 2018 ha sviluppato una nuova ampia frattura dalla quale fuoriescono continuamente quantità importanti di lava incandescente con temperature fino a 1100 gradi Celsius. Altra area interessata dalle attività vulcaniche è quella del monte Camerun nel golfo di Guinea. Attività telluriche importanti si manifestano pure altrove nel continente. Nel luglio 2013 una forte scossa di terremoto ha colpito l’area del lago Alberto, al confine tra Congo e Uganda. Il sisma ha avuto un’intensità pari a 5,7 di magnitudo. Poco più a Sud, nel 1966, si verificò un terremoto distruttivo con una magnitudo pari a 7,2 gradi, seguito da una serie violenta di scosse che uccisero centinaia di abitanti. Nel 2002 si creò un “esodo biblico” dal Congo verso il Ruanda, con centinaia di migliaia di persone in fuga per l’eruzione del vulcano Nyiragongo, la più devastante tra quelle avvenute in Africa nell’ultimo quarto del XX secolo e che ha mietuto una settantina di vittime (nel 1977, per un episodio analogo, si parlò di 2.000 morti). Circa 400.000 profughi si lasciarono alle spalle case e città minacciate dalla lava (Goma, località congolese sul lago Kivu, ne è stata letteralmente invasa), incamminandosi senza cibo e acqua verso il Ruanda. La situazione divenne drammatica perché la lava minacciò poi anche la città ruandese di Giseneyi, meta della maggior parte dei profughi. Insomma, i mutamenti climatici, le attività sismiche e vulcaniche, oltre a provocare devastazioni e morte, sono fattori importanti nel determinare gli spostamenti delle persone. In Africa, le migrazioni ambientali costituiscono la parte più significativa delle migrazioni interne, cioè quelle di coloro che giuridicamente vengono definiti sfollati perché non superano i confini nazionali. Dei quasi 28 milioni di sfollati interni, più di 19 milioni sono sfollati ambientali dispersi in 133 paesi. Migrazioni originate, dunque, da calamità naturali e non solo, data l’alta componente di processi a radice antropica. Una parte di questi migranti forzati attraversa i confini degli Stati e si spinge anche in Europa e nel mondo. In questo quadro generale si possono identificare dei macro-casi di approfondimento, come quello della Repubblica Democratica del Congo (RDC). Pur essendo una miniera a cielo aperto, la RDC è uno dei Paesi che ha un PIL pro capite tra i più bassi del mondo, una popolazione con debole speranza di vita alla nascita, basso tasso di scolarizzazione, alta mortalità infantile entro i cinque anni e molti altri indicatori che la pongono ai gradini inferiori di ogni graduatoria, tra i quali un indice di sviluppo umano collocato tra gli ultimi del pianeta. Kinshasa, la capitale della RDC, è oggi una metropoli la cui popolazione stimata supera i 12 milioni di individui (2016). La città è ancora in rapida espansione, si calcola che inglobi circa 300.000 nuovi abitanti all’anno (il che equivale a dire una città media secondo i parametri italiani o europei). Il territorio urbano è ampiamente al di sotto del livello minimo di infrastrutturazione, considerando che appena il 6,4% del costruito è pianificato e può usufruire dei servizi di base. Inoltre, interi quartieri densamente abitati sono esposti al rischio di erosione e inondazione. Ciò è dovuto, nel primo caso, alla disposizione dell’agglomerato sui versanti delle colline che bordano ampie zone della città, territorializzate nel corso della lunga espansione urbana della capitale, dall’Indipendenza a oggi. I versanti collinari sono caratterizzati da un terreno non stabile, le cui condizioni idrogeologiche sono state aggravate dalla deforestazione e dall’inadeguato uso del suolo praticati dagli abitanti; durante i mesi della lunga stagione delle piogge, l’acqua scorre poderosa dalle colline verso la pianura dalla quale la capitale si è originata, talvolta portando via con sé interi quartieri e pezzi di centro abitato. D’altro canto, le precipitazioni causano le esondazioni dei numerosi fiumi che attraversano il tessuto urbano, provocando morti e distruzione, soprattutto nelle zone più povere della città, i cui abitanti vengono così a trovarsi in una condizione di doppia vulnerabilità. È questo un significativo esempio di dissesto idrogeologico urbano, con voragini, erosioni e allagamenti capaci di produrre devastazioni e vittime, dovute sia a fattori catastrofici naturali sia a responsabilità e azioni dell’uomo. Quello di Kinsasha potrebbe costituire il macro-caso di studio su cui incentrare gli approfondimenti della ricerca, insieme a un altro paio da definire, anche in relazione alla città dell’Aquila e alla ricostruzione. Non sono da escludere i villaggi che si spopolano, in diverse parti del Congo e in Africa, riversandosi in città per far fronte a problemi dovuti alle attuali variazioni climatiche (siccità, desertificazione, carestie). È importante far comprendere, in termini comparativi nell’ambito delle relazioni internazionali con altri centri di ricerca, che anche l’affollamento urbano è dovuto allo spopolamento delle campagne, mettendo quest’ultimo in relazione con il climate change. Tanto più che è poi dalla concentrazione della popolazione nelle città e dalla densità urbana che si genera, spesso, l’emigrazione internazionale. In ogni modo il caso di Kinshasa, implementato o comparato con altri, mostrerà la stretta interconnessione fra disastri ambientali, emigrazione e ricostruzione – nel senso di ricostruzione resiliente “in loco” e di progetto migratorio “in moto”. Inoltre, sarebbe necessario studiare altri casi strutturalmente simili per tentare di individuare delle ricorrenze e, in seguito, per ricomporre la casistica trattata entro un quadro geografico e tematico sia a grande scala (Kinshasa e villaggi limitrofi) sia alla piccola scala (l’Africa nel suo insieme). Tutto ciò con lo scopo di poter fornire una piattaforma in cui si trovino enumerate e spiegate le dinamiche che portano le popolazioni e le comunità colpite da disastri a reagire creativamente e con rigore agli effetti di ogni tipo di catastrofe, sia essa naturale o causata dall’azione antropica. E l’obiettivo ultimo non può essere altro che quello di rendere conto della vastità e della complessità analitica, e dunque della profondità, di quel fatto sociale, ambientale e umano che chiamiamo ricostruzione.

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